mercoledì 20 maggio 2015

L'incontro con la vera finocchiona

 

Stamponamento è stata la parola su cui è stato deciso il nostro allontanamento dalla fase conclusiva del progetto del nuovo grande negozio Conad in Piazza del Campo: dal nome accattivante Sapori & Dintorni.
Lo stamponamento, parola vagamente chirurgica, che definiva la completa riapertura di tutte e tre le ogive della facciata, è stato però negato, con una valutazione tecnico estetica completamente errata, dalla Soprintendente. Anche se, tale riapertura, era già stata autorizzata dalla stessa agile autorità alcuni mesi prima.
Ma il tardivo e immotivato divieto era ben visto, e forse sollecitato, anche da membri di una innocua aggregazione di coetanei tecnici ben disposti in vari punti chiave delle amministrazioni interessate: una piccola Mattoneria.
Così siamo usciti da quella esperienza. Ma non completamente, perchè il nostro progetto era di qualità neppure percepibile ai nuovi attori e, soprattutto, aveva già ricevuto altre approvazioni ufficiali: ad esempio quella della Commissione Paesaggistica Comunale Integrata.

Ora Sapori & Dintorni è aperta al pubblico godimento che, attratto dalla quantità e qualità dei prodotti, e non conoscendo le perdute eleganze progettuali, penso si accalcherà felice sulle merci e non si accorgerà nemmeno delle perdute qualità formali di quello spazio.
Dispiace che si sia persa una occasione felice: si vede che quel luogo, essendo stato anche ex Spizzico, non è adatto a finezze inutili per chi vuole che gli occhi mangino e basta.
Qui si poteva, invece, mangiare altro anche con gli occhi. Ma chi avrebbe preferito dare un occhiata alle quattro lampade di Alvar Aalto (1953) piuttosto che alla "vera finocchiona"?
La conclusione è volutamente presuntuosa: può/deve una città come Siena perdere occasioni come questa: far diventare una bottega anche un'architettura?

Intanto, parafrasando Vanni Scheiviller, si può dire: "non l'ho visto e non mi piace".



Lampade di Alvar Aalto non usate


                                                                                                        Sotto lo sguardo di San Tommaso









giovedì 9 aprile 2015

Vittime di guerra


in mostra a Bologna
Di Arturo Martini, nella recente mostra a Bologna (settembre 2013 - gennaio 2014), in Palazzo Fava / Palazzo delle Esposizioni, erano esposte le sue grandi terrecotte: tra cui due rare e inedite.
Io ne avevo già viste alcune: ad esempio, a Parigi diversi anni fa, La convalescente in terra refrattaria chiara. La fanciulla, quasi distesa entro una grande poltrona, con un libro aperto posato su una gamba e la testa abbandonata su un guanciale, esprimeva un tale senso di affettuoso rispetto che si traduceva in una disposizione circolare e discosta dei visitatori. Come si visitasse davvero un'ammalata.
La modella era stata la figlia Nena, già immortalata anche in un busto col suo nome, presente nella mostra.
Ma veniamo al motivo per cui mi permetto di rompere ancora le scatole con la mia pur giustificata predilezione per Martini, che va ben oltre la parentela.
Nella bellissima mostra di Bologna erano riunite quasi tutte le sue grandi terracotte, eseguite perlopiù nello studio ricavato entro l'altoforno dell'Ilva, a Vado Ligure; e lì cotte. Per questo nessuna rottura! Per la prima volta nell'epoca moderna.
Era la grande opera intitolata Il cielo-Le stelle (del 1932) a richiamare particolarmente l'attenzione per le sue evidenti mutilazioni. Le due ragazze erano mutilate delle mani, e una, quella seduta ai piedi dell'altra, addirittura decapitata.
E' facile dire che anche con quelle mutilazioni il richiamo di questa opera era grande ma doloroso, perchè la bellezza assumeva un tono imperioso e tragico proprio per quelle mutilazioni. Fino al punto di ignorarle o considerarle quasi un nascosto desiderio non scolpito dell'autore. Ma non è così, ovviamente. Eppure quel particolare tipo di bellezza era davvero inquietante.
Da ragazzo, molti anni fa perciò, avevo ricevuto in regalo da Dario Neri, quel grande senese artista e imprenditore, il libriccino della sua collana Astra Arengarium dedicato proprio ad Arturo Martini. A pagina 24, con il titolo Le stelle, la terracotta era ancora intatta. Ma la sua collocazione: ROMA Coll. Arch. Marcello Piacentini, riletta oggi, doveva avermi aperto una traccia. Forse un'indagine da sviluppare, nel mio piccolo, perchè non sono affatto uno storico dell'arte.
Il "mistero" mi si è chiarito quando ho trovato, alla pagina 169 del libro ARTURO MARTINI, Da "Valori Plastici", una foto, non chiarissima ma evidente, della grande scultura posta nel giardino della villa di Marcello Piacentini: ancora intatta.
Per farla breve: dispiace molto di dover accusare l'ignoranza di un antifascista, forse addirittura un partigiano combattente, che, entrato nella proprietà di Marcello Piacentini, l'Architetto del regime fascista, aveva preso forse a martellate quella magnifica scultura ignorando due cose di troppo. Cioè che la grande arte non è né fascista né comunista, e che la violenza verso quella grande opera d'arte può essere considerata come il surrogato di un omicidio mentale.


da "Arturo Martini", Arengarium, Electa Editrice, Firenze (1949)
ma la foto era precedente.
 "ARTURO MARTINI"
Da "Valori Plastici" agli anni estremi
De Luca edizioni d'arte (Matera, 1989)







PS. Anche la figura cui non fu spezzata la testa, fu però, come si vede chiaramente, privata del naso e degli occhi. Dunque una povera cieca che non ha visto e non vede più né cielo né stelle.

giovedì 2 aprile 2015

Il Santa Maria della Scala e la contemporaneità

Pontormo e Bill Viola a Palazzo Strozzi, 2014
A questo punto dovrebbe essere chiaro a tutti che, se Siena vuole sopravviversi, deve essere ripreso e completato il lavoro di ricostruzione, consolidamento e restauro di parte non piccola del Santa Maria della Scala: che è rovinata, mettendo oltretutto in pericolo le parti già in uso del futuro grande museo.
A proposito di questo, è altrettanto scontato che le linee guida, per non dire il progetto, della realizzazione del più grande museo non solo senese, rimangono saldamente quelle enunciate e scritte da Cesare Brandi fino a Gabriele Borghini.
Inutile, o sbagliato, voler incastrare in quel complesso integrato (conglomerated order, direi seguendo Peter Smithson) troppe cose, soprattutto altri museini, mostre o galleried'arte più o meno contemporanea; o più o meno senese.
Ci sarebbero ben altri problemi di ricollocazione che non questi. Ad esempio, ragionando, perchè non la Maestà di Duccio di Buoninsegna? 
Altri tipi di inserimenti si potrebbero e si potranno fare: ma temporanei e di arte moderna, entro il museo già sistemato. Proprio per questo sarebbe conveniente che le opere da esporre si componessero su superfici vaste, senza appiccicaticci; ma in certi casi lasciando spazio intorno: per poterlo eventualmente usare temporaneamente e con colta intelligenza e consapevolezza realmente moderna. Secondo una valutazione molto scrupolosa, oltre che lungimirante.
Volendo fare proprio un esempio: perchè una volta tanto non "fare come Firenze" come è stato fatto recentemente a Palazzo Strozzi; inserire cioè un'opera contemporanea, anche di diversa fattura materica, e non necessariamente appiccicata alle altre opere esposte. Ma posta comunque in una continuità con quelle tutta mentale e di significato.
L'esempio di Bill Viola a Firenze potrebbe benissimo essere ripetuto (ma ci sono molte altre scelte possibili) mettendolo in continuità percettiva anche se in completa difformità di figura e materia. L'opera di Bill Viola è notoriamente una complessa composizione di tecniche formative, compositive e di materia. In questo caso, di Viola, con un risultato addirittura immateriale.

Domenico Di Bartolo al Santa Maria della Scala (1441)

Bill Viola, The crossing, Salton Sea  (Guggenheim)


lunedì 30 marzo 2015

Wolfsburg, andata e ritorno

Augusto Mazzini
Tommaso de Sando, 28 febbraio 2015
Ho terminato proprio venerdì scorso, venerdì 27 marzo, la mia esperienza professionale a Wolfsburg presso la Neuland (Housing Company): come era previsto di comune accordo.
Perciò è stata una esperienza nuova ma in continuità con il mio esercizio professionale qui a Siena, dove sto scrivendo queste righe.
In sintesi: affrontare l'inserimento in un ambiente culturale e professionale più europeo, in una città non grande (sarebbe come Siena se Siena acquisisse il suo territorio naturale) ma di nuovo in espansione che dovrà, entro il 2020, assorbire fino a 70'000 persone, che attulamente sono "pendolari".
Ma Wolfsburg non è solo la città della Volkswagen - e non sarebbe cosa da poco - ma è una città ricca di nuovi servizi, di un ambiente naturale e costruito di grande e misurata qualità.
Vi hanno lavorato, nel tempo, (parlando di architettura) Alvar Aalto, Hans Scharoun e, ultima, Zaha Hadid: discutibile ma sempre architetto di qualità.
L'esperienza è stata intensa e apprezzata (diciamolo pure). Ma non si è limitata solo a un periodo di pratica professionale limitata o marginale. Ho partecipato, infatti, a una proposta per un quartiere degli anni 60-70, bisognoso di riqualificazione e di maggiore integrazione col resto della città.
Sono soddisfatto dell'accoglienza che ha avuto la presentazione del mio lavoro (un'ora di aperta discussione, in inglese, s'intende).
Era impossibile, poi, non recarsi a Berlino: che si è rivelata, come sempre, una città di grande forza attrattiva e di qualità urbanistica. Edifici e spazi nuovi si sono integrati con le grandi presenze storiche e hanno risarcito le grandi distruzioni della guerra e della deivisione fisica in due città antitetiche.
La rinascita urbanistica cominciò con la Philharmonie di Hans Scharoun, poi venne Mies Van Der Rohe con la Neue Nationalgalerie per arrivare, attraverso altri grandi nomi, a Renzo Piano in Potsdamer Platz e a Norman Foster nella trasformazione del Reichstag (vedi le due immagini iniziali).
Dunque un'esperienza felice che ora spinge a guardare anche ai nostri luoghi, alle nostre grandi e piccole città (Siena per cominciare), con ambiziosa modestia, sapendo che l'Europa sta, nonostante tutto, andando ancora avanti e l'Italia, invece, appare ferma con rare eccezioni.

Siena ci aveva provato e ci dovrà riprovare.

Alvar Aalto, Kulturhaus di Wolfsburg, 1962 (Foto di Tommaso de Sando, 2015)

martedì 27 gennaio 2015

70 anni fa








Nello stesso anno, il 1945, il 3 giugno, giorno di chiusura delle scuola, scoppiò una bomba a Siena (a San Prospero). Ero insieme agli amici Fausto, Franca e Roberto. Fui salvato per miracolo nel vecchio Santa Maria della Scala da un medico, giovane laureato. A suo modo la guerra fascista continuava ancora a colpire. Ma anch'io, come troppi bambini, non ne ero ancora consapevole.

mercoledì 7 gennaio 2015

giovedì 18 dicembre 2014

Pietà: l'è morta


 Tre parole sull'urbanistica. Ma tre davvero anche se - come si dice - il discorso sarebbe ampio e radicale.

- L'urbanistica come cultura, disciplina e pratica, è oggi morta, contrariamente a quanto potrebbero far pensare i quintali di carta su cui si enumerano regole, riferimenti, sigle, rimandi a, intricate parentele disciplinari, etc. Ogni Regione, poi, aggiunge del suo.
- Mentre abbondano le articolazioni grafiche e specialistiche (di specialità perlopiù di nuovo conio); e crescono le pagine che spiegano l'inspiegabile, il Disegno si è perso. Non c'è mai una sintesi tra le diverse competenze "assoldate".
- Il Disegno, nel senso di ideazione tentativa, visione estesa e complessiva dell'ambiente, e anche di analisi esemplificativa e preprogettuale, è disperso: se non inesistente.
- Chi amministra l'urbanistica (regioni e comuni: e lo Stato?) non studia, non elabora, non interviene attivamente. Tecnici, anche di buona scuola, sono completamente declassati a burocratiche funzioni; e i cosiddetti dirigenti sopravvivono tra frustrazione e arroganza.
Gli Amministratori, gli Assessori, perlopiù recitano la parte.

veduta per il Nuovo Piano Regolatore di Siena di Luigi Piccinato (1953?)
Giancarlo De Carlo, schema per il rapporto San Miniato-La Lizza (1973?)

lunedì 15 dicembre 2014

Uno sciopero fuori luogo


La boutique Marzucchi di Via Montanini ha circa trentanni. E non li dimostra: come succede spesso ad architetture, se di questo di tratta, prevalentemente di interni in vista che non sono nati con la voglia di essere completamente up to date. Specie quando si offrono ed espongono prodotti di qualità che si vorrebbe durassero nel tempo e nell'apprezzamento.
Dunque, anche lo spazio che esprime queste ambizioni avrebbe l'intenzione di durare ancora nel tempo e nell'apprezzamento. Se lo si legge con attenzione si trovano i caratteri principali: materiali e forma dello spazio non ossessivamente omogenei tra di loro secondo un disegno totalizzante. Travertino, arredi bianchi e, verniciata di bianco, anche una preesistente robusta longarina con, ancora leggibili, le sue storiche generalità. Fonti di illuminazione che occhieggiano al Deco; le lampade appese di Alvar Aalto anch'esse bianche e anni trenta. Due grandi tavoli a fronte con i ripiani di travertino ritagliati da una lastra originaria in modo complementare: i lati che si fronteggiano potrebbero far pensare a una stoffa ritagliata da abile sarto. E poi specchi, perché bisogna anche guardarsi e, soprattutto, che lo spazio si allunghi, ma in modo non simmetrico e totale. Poi gli ambienti per provarsi i vestiti, ovviamente; e le due vetrine che lasciano trasparire e respirare l'interno.
A chiudere il tutto, quasi a filo strada, due grandi sportelli scorrevoli in legno con, al centro, due mezzi quadrati di cristallo che formano, a porte chiuse, un quadrato perfetto. In modo che si legga bene sullo sfondo il nome Marzucchi al neon, anche di notte.
All'esterno, verso la soglia, due semi colonnini ai lati dell'apertura sulla strada, aspettano invano l'arrivo di una carrozza. I grandi sportelli, se chiusi, proteggono i vestiti nella vetrina in modo che non invecchino rimanendo sempre in vista.

E' la seconda volta, nella notte di sabato 13, che qualcuno ha tentato di dare fuoco a questi sportelli.
Ma questa volta c'era l'incentivo stuzzicante di bruciare facilmente il cumulo di cartoni che erano lì davanti, come a tanti altri negozi e portoni delle strade cittadine.
Si dirà che c'era stato, il venerdì, lo sciopero. Ma l'accumulo così a lungo delle carte e dei materiali infiammabili, di questi tempi, è molto attraente: sia per gli stupidi che, anche, per nuovi mascalzoni.
Occorrerà pensare anche a questo per difendere il più possibile l'ambiente del centro storico, o della città: che sono la stessa cosa.



                  
Collaborazione essenziale di Zeynep Mesutoglu.

                                









Foto d'epoca di Toni Garbasso

mercoledì 19 novembre 2014

Como è Trieste Venezia (Lelio Luttazzi?)

Perchè confessare la propria tristezza. Penso che la tristezza, al di là di quella individuale, personale, intima, che ha veri motivi piccoli o enormi che siano; la tristezza, dicevo, può essere inconsapevole, uno stato quasi naturale dell'essere. Come il suo opposto: la soddisfazione. Ma la soddisfazione è mediocre, di segno materiale: quindi chi ce l'ha se la tenga.
Ma quando la tristezza è estesa, diffusa, leggibile, lo è anche nelle persone e nei luoghi. Anche una città (la città) può essere triste: nel suo insieme. Grande o piccola che sia. Persino Roma, la sguaiata, può esserlo. Specialmente di questi tempi. E Siena. Ma non ci intristiamo.
Anzi, intristiamoci semmai con cattiveria, guardando insieme tre cose tristi per la loro presunta qualità, o per la finta allegrezza, che è la stessa cosa.
Prendiamo quindi tre foto di architetture da due stimate riviste arrivate da poco sul tavolo: Casabella e L'industria delle costruzioni.

La più ipocrita: formalismo cimiteriale.
Paolo Zermani, cimitero di Sansepolcro, ampliamento

La più sciancata: una scala inutilmente complicata.
Giovanni Maciocco, Santa Chiara ad Alghero, recupero

La più sguaiata: un Biomuseo, gigantesco accrocco e costoso giocattolo.
Frank Ghery, Biomuseo della natura, Panama